Dipinto, Jack Kerouac |
Il giardino dei poeti di Gianni Milano
E con le strade la città è dipinta dal sudato colore
della biacca – naufraghi estivi che Torino insacca
come si fa quand’il maiale è ucciso
e dopo l’assassinio non più grinta sul volto lieto e rosso
com’un culo ma il soddisfatto assetto delle rughe
com’allo scalo merci a mezzanotte – e per le strade
ch’erano truccate com’antiche puttane di Fellini
e mostravano un niente senza scopo
adorno tutt’intorno d’anellini come scimmie cannibali
infoiate
e “Basta che t’avvii e il gioco è fatto” ma il Messico
è lontano e non c’è luna “Tutta fortuna tua
tutta fortuna” così che l’insipienza si trasmuta
in rapido passaggio di rasoio che resecò il cordone
e il nastro rosa di una malinconia ch’è fregatura
per darsi a chi non so per darsi e basta – sopra il catrame
e i suoni della festa che raccoglievo a spiccioli
ed in cesta gettavo com’inutile sozzura.
Cicatrici tribali, le lanterne, come mistici viaggi
d’Australiani
sulle vie dei Canti e degli Antichi
e pillole di suoni e lampi al neon per un andare dentro al
Leviatano
ch’ammicca – e si disgrega la certezza
come torre d’Artù sotto la pioggia.
Demònico esaltato panorama, illusioni di Morte
incerottate da petulanti sistemi di pensiero col Descartes
sul quadrivio a sentenziare “Io rumino ed esisto”
e il resto a mare – il resto che attraversa come lama
il mistero dell’essere vagante,
il nome che si dice cogitante ed intronato sulle feci
esclama “Chi dice che non sono non mi ama”
mentre una parte di quell’io è trasfusa nell’organico
incerto
del letame. Quell’Io non c’era
ed anche no il ‘non c’era’: una bolla di nulla eppure vera.
Tra quei dirupi urbani di metallo, enfatici perché
castrato è il gallo, eclissata la luna ed un violetto
fiato di freddo che corre lungo i viali, Immacolata
Concepita
stava Madonna Beat, impasto di barriera, nera Kalì,
figliola dell’incontro tra il sogno dei poeti e il
manganello,
tra il bisogno di pace e la Questura.
Come Giovanna la papessa, anch’essa
era una voce fattasi leggenda
per la Crociata dei Fanciulli, l’anno
sessantacinque, al secolo che muore.
Svanì come svaniscono i soffioni.
Un giorno s’alzò il vento e fu la fine.
Dall’alto del sentiero degli Amanti, tra Vernazza e
Corniglia,
cielo e mare, la scorgo com’icòna aureolata, come Kwannon
seduta trasognata, con gli occhi come quelli di Sirena – al
di fuori
del bene e della pena. S’illumina d’un rosso porporino
il fico d’India che mi cresce accanto: fallace è l’operare
di memoria, certezza è per l’istante – il luogo è santo.
Teste di pesce con cipolle ardenti in gara nella ruggine
del sole ch’artigliava la pietra e la succhiava
riducendo le forme a pura luce – crémisi, nera, verde ed
arancione
e tutto il litorale indifferente ed il mare fecondo a
ciondolare
da alterne eternità sedotto e attratto
com’ondulato muoversi di piovra
come congiunto ponte sopra il nulla e d’Icaro
il rifiuto della norma e il volo ch’è Nirvana temporale
sopra il golfo contratto da emozioni – ed è per questo
che lagrime salate scavano sulle guance un segno antico
d’appartenenza al mondo dei mortali, dei sostenuti
[dall’esclamazione,
ed è per questo che una madre invoco di darmi un seno,
un ospitale abbraccio, quasi un Cristo deposto, quasi un
tronco,
che la corrente senza sforzo affida al fluire del fiume
verso il mare, il mare delle lische e di Kalì, il mare
della luce così fonda che m’acceca e m’annera e mi fa tutto
col rotolare delle storie d’ieri in un punto indistinto
– un terzo occhio – ch’attira ed è vertigine caduca.
Selvatico terreno senza nome donde sgorgano
rovi e fiori azzurri, lancinanti esplosioni ed ombre lievi
che giungono dall’Ade, ovunque sia, e muovono le labbra
senza
[suono
e paiono gemelli del mio stare in questo tempo ch’addolora i
giunti
e mi culla in un dòndolo stupito: “Figli della mia storia?
o quanto padre!”. Su fogli d’innocenza impressi in nero
mi giungono messaggi d’oltre il rio, ch’è simbolo d’arcano
limitare.
Voci, convengo, d’anime perdute, al riparo di àgavi puntute,
voci incarnate in scarabei d’agosto, rotolanti lo sterco
sotto il sole, barbuto com’un Dioniso caprino.
Immerso appieno nell’India immaginale
su panchette di legno e volti amici nel treno che da Genova
filava, com’un bruco da seta, un lento andare
lungo scorze d’arancio – il sole in mare,
scorgevo icòne ch’Alessandro scorse nel suo viaggio letale
verso il luogo previsto dall’oràcolo fatale
come termine estremo,
com’assenza delle egotiche furie compulsive.
E fu viaggiando come un solitario ricamatore di mitologìe
con Ramakrishna il santo, il pio e devoto, e Ganesh
protettore
degli artisti che la driade in sari entrò nel canto
ch’è timone alla vita, ch’è destino. Micheline yogini,
la straniera assorta, ch’univa Europa ed Asia in una collana
di fiori nel mattino e d’ombre quiete nel profumo dei fichi
e dei silenzi, traspose in terra ligure la gloria
del pensiero inattivo, che contempla, unito in fratellanza
creaturale
col dramma della vita e della morte. La Madre Nera fu così
compresa,
pietosa nell’assente lagrimare. ‘Essere’, scrisse Fromm,
‘meglio è
ch’avere’ ma la scelta ci sfugge
perché siamo abbiamo e diveniamo
e in conclusione il moto è un’illusione.
Seduto nel prato,
capelli bianchi e postura
da antico cantore di vento
ho scorto una notte tossendo
la resistenza caparbia
del mio corpo invecchiato
come una foglia rossa d’autunno
l’uomo dai versi ampi
che chiedono le folle
quelle di Luther King, di Baez, di Bob Dylan.
Walt Whitman se ne stava
già monumento a sé, indifferente al tempo,
come il profilo di Cavallo Pazzo
come l’America che mai non conoscemmo.
E allora fu febbre che spinse
od il sodale spirito del canto
ma la notte trascorse – un sogno, credo –
col piccolo Giovanni assiso accanto
alla quercia dei giorni giovanili.
Recitammo il silenzio.
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