sabato 9 ottobre 2021

Milano, nipote beat

 

Dipinto, Jack Kerouac



Il giardino dei poeti di Gianni Milano

 

E con le strade la città è dipinta dal sudato colore

della biacca – naufraghi estivi che Torino insacca

come si fa quand’il maiale è ucciso

e dopo l’assassinio non più grinta sul volto lieto e rosso

com’un culo ma il soddisfatto assetto delle rughe

com’allo scalo merci a mezzanotte – e per le strade

ch’erano truccate com’antiche puttane di Fellini

e mostravano un niente senza scopo

adorno tutt’intorno d’anellini come scimmie cannibali infoiate

e “Basta che t’avvii e il gioco è fatto” ma il Messico

è lontano e non c’è luna “Tutta fortuna tua

tutta fortuna” così che l’insipienza si trasmuta

in rapido passaggio di rasoio che resecò il cordone

e il nastro rosa di una malinconia ch’è fregatura

per darsi a chi non so per darsi e basta – sopra il catrame

e i suoni della festa che raccoglievo a spiccioli

ed in cesta gettavo com’inutile sozzura.

 

Cicatrici tribali, le lanterne, come mistici viaggi d’Australiani

sulle vie dei Canti e degli Antichi

e pillole di suoni e lampi al neon per un andare dentro al Leviatano

ch’ammicca – e si disgrega la certezza

come torre d’Artù sotto la pioggia.

Demònico esaltato panorama, illusioni di Morte

incerottate da petulanti sistemi di pensiero col Descartes

sul quadrivio a sentenziare “Io rumino ed esisto”

e il resto a mare – il resto che attraversa come lama

il mistero dell’essere vagante,

il nome che si dice cogitante ed intronato sulle feci

esclama “Chi dice che non sono non mi ama”

mentre una parte di quell’io è trasfusa nell’organico incerto

del letame. Quell’Io non c’era

ed anche no il ‘non c’era’: una bolla di nulla eppure vera.

 

Tra quei dirupi urbani di metallo, enfatici perché

castrato è il gallo, eclissata la luna ed un violetto

fiato di freddo che corre lungo i viali, Immacolata Concepita

stava Madonna Beat, impasto di barriera, nera Kalì,

figliola dell’incontro tra il sogno dei poeti e il manganello,

tra il bisogno di pace e la Questura.

Come Giovanna la papessa, anch’essa

era una voce fattasi leggenda

per la Crociata dei Fanciulli, l’anno

sessantacinque, al secolo che muore.

Svanì come svaniscono i soffioni.

Un giorno s’alzò il vento e fu la fine.

Dall’alto del sentiero degli Amanti, tra Vernazza e Corniglia,

cielo e mare, la scorgo com’icòna aureolata, come Kwannon

seduta trasognata, con gli occhi come quelli di Sirena – al di fuori

del bene e della pena. S’illumina d’un rosso porporino

il fico d’India che mi cresce accanto: fallace è l’operare

di memoria, certezza è per l’istante – il luogo è santo.

 

Teste di pesce con cipolle ardenti in gara nella ruggine

del sole ch’artigliava la pietra e la succhiava

riducendo le forme a pura luce – crémisi, nera, verde ed arancione

e tutto il litorale indifferente ed il mare fecondo a ciondolare

da alterne eternità sedotto e attratto

com’ondulato muoversi di piovra

come congiunto ponte sopra il nulla e d’Icaro

il rifiuto della norma e il volo ch’è Nirvana temporale

sopra il golfo contratto da emozioni – ed è per questo

che lagrime salate scavano sulle guance un segno antico

d’appartenenza al mondo dei mortali, dei sostenuti

[dall’esclamazione,

ed è per questo che una madre invoco di darmi un seno,

un ospitale abbraccio, quasi un Cristo deposto, quasi un tronco,

che la corrente senza sforzo affida al fluire del fiume

verso il mare, il mare delle lische e di Kalì, il mare

della luce così fonda che m’acceca e m’annera e mi fa tutto

col rotolare delle storie d’ieri in un punto indistinto

– un terzo occhio – ch’attira ed è vertigine caduca.

 

Selvatico terreno senza nome donde sgorgano

rovi e fiori azzurri, lancinanti esplosioni ed ombre lievi

che giungono dall’Ade, ovunque sia, e muovono le labbra senza

[suono

e paiono gemelli del mio stare in questo tempo ch’addolora i giunti

e mi culla in un dòndolo stupito: “Figli della mia storia?

o quanto padre!”. Su fogli d’innocenza impressi in nero

mi giungono messaggi d’oltre il rio, ch’è simbolo d’arcano limitare.

Voci, convengo, d’anime perdute, al riparo di àgavi puntute,

voci incarnate in scarabei d’agosto, rotolanti lo sterco

sotto il sole, barbuto com’un Dioniso caprino.

 

Immerso appieno nell’India immaginale

su panchette di legno e volti amici nel treno che da Genova

filava, com’un bruco da seta, un lento andare

lungo scorze d’arancio – il sole in mare,

scorgevo icòne ch’Alessandro scorse nel suo viaggio letale

verso il luogo previsto dall’oràcolo fatale

come termine estremo,

com’assenza delle egotiche furie compulsive.

E fu viaggiando come un solitario ricamatore di mitologìe

con Ramakrishna il santo, il pio e devoto, e Ganesh protettore

degli artisti che la driade in sari entrò nel canto

ch’è timone alla vita, ch’è destino. Micheline yogini,

la straniera assorta, ch’univa Europa ed Asia in una collana

di fiori nel mattino e d’ombre quiete nel profumo dei fichi

e dei silenzi, traspose in terra ligure la gloria

del pensiero inattivo, che contempla, unito in fratellanza creaturale

col dramma della vita e della morte. La Madre Nera fu così compresa,

pietosa nell’assente lagrimare. ‘Essere’, scrisse Fromm, ‘meglio è

ch’avere’ ma la scelta ci sfugge

perché siamo abbiamo e diveniamo

e in conclusione il moto è un’illusione.

 

Seduto nel prato,

capelli bianchi e postura

da antico cantore di vento

ho scorto una notte tossendo

la resistenza caparbia

del mio corpo invecchiato

come una foglia rossa d’autunno

l’uomo dai versi ampi

che chiedono le folle

quelle di Luther King, di Baez, di Bob Dylan.

 

Walt Whitman se ne stava

già monumento a sé, indifferente al tempo,

come il profilo di Cavallo Pazzo

come l’America che mai non conoscemmo.

E allora fu febbre che spinse

od il sodale spirito del canto

ma la notte trascorse – un sogno, credo –

col piccolo Giovanni assiso accanto

alla quercia dei giorni giovanili.

 

Recitammo il silenzio.

 


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