Elisium, Léon Bakst
Ballata di Vladislav
Chodasevič
Siedo nella
mia stanza rotonda,
Siedo,
dall’alto rischiarato.
Guardo il
sole da venti candele
Lassù nel
cielo intonacato.
Intorno –
come me rischiarati,
Il tavolo,
i lisi divani.
Siedo – e
nello sgomento non so più
Dove posare
le mie mani.
Sui vetri
silenzioso fiorisce
Un gelido
bianco palmeto.
Nel
taschino del gilè martella
L’orologio
il suo toc inquieto.
Oh, della
mia vita senza scampo
Inerte,
misera povertà!
A chi
confidare come io sento
Per me e
per queste cose pietà?
Ed ecco
comincio ad oscillare,
Tenendo
serrati i ginocchi,
E a un
tratto in versi a parlare prendo
Con me
stesso, chiudendo gli occhi.
Sconnessi,
appassionati discorsi!
Discorsi
senza alcun costrutto,
Ma i suoni
son più veri del senso,
La parola –
più forte di tutto.
E musica,
musica, musica
Al mio
canto si avvince,
E sottile,
sottile, sottile
Una lama
allor mi trafigge.
Io emergo
al di sopra di me stesso,
Mi erigo
sulla morta esistenza,
I piedi
nella fiamma nascosta,
La fronte
negli astri scorrenti.
E vedo con
occhi smisurati –
Con occhi,
forse, di serpente –
Come il
canto selvaggio ascoltano
Le mie
tristi cose da niente.
E a un
fluido ritmico vortice
Tutta la
stanza si abbandona,
E qualcuno
la pesante lira
Attraverso
il vento mi dona.
E non c’è
più il cielo intonacato
E il sole
da venti candele:
Su nere
rocce levigate
Orfeo
poggia i piedi lieve.